Giulia Corradetti: la bellezza del “mutante”
Articolo "Contempor Art", trimestrale di Arte e Cultura - di Andrea Baffoni
Il Novecento è stato il secolo della tecnologia, dell’evoluzione spasmodica e del definitivo incontro fra uomo e macchina. I futuristi lo auspicavano fin dal primo decennio, André Deed l’esprimeva con L’uomo meccanico nel 1921, Fritz Lang nel 1927 con Metropoliz e Chaplin dieci anni dopo con Tempi moderni, ma nessuno aveva messo in discussione il primato del genere umano. Al contrario, oggi, nella “società liquida” di Bauman, i confini che separano i generi non sono più certi, le relazioni non più stabili e il concetto dell’essere è messo in discussione. L’arte di Giulia Corradetti appartiene a questo millennio, ma affonda le radici nell’ultimo scorcio del precedente, iniziato con la nascita dei Comuni e finito con quella di un mondo artificiale dove virtualità e realtà s’intrecciano, spesso confondendosi, a volte sovrapponendosi.
Nel 1967 Gino Marotta lo esplicava con Naturale Artificiale, installazione in metacrilato trasparente sembiante un bosco. La plastica sostituiva legno e foglie tentando di esaltare il fascino insito nel materiale industriale. L’uomo si evolve per natura, sembrava dire, e il prodotto artificiale ha la stessa capacità di spingerlo al “bello” insita negli elementi della natura. Nel frattempo l’artificialità correva sempre più velocemente verso i fragili esseri umani. Scienza e fantascienza si alternavano in una staffetta continua, Mary Shelley aveva scritto già da 150 anni il suo Frankenstein quando il 3 dicembre 1967 Barnard eseguì il primo trapianto di cuore e si iniziavano a progettare le protesi bioniche. L’androide entrava ufficialmente nell’immaginario comune e l’ingegneria genetica era all’orizzonte. Dalla letteratura al cinema, tra cultura cyberpunk e immaginario collettivo, l’era delle macchine dilagava in ogni dove.
Giulia Corradetti va oltre, collocandosi in pieno clima post-human, ma spostando l’attenzione dal problema dell’artificialità applicata all’uomo a quello della natura, proprio come evidenziato nella recente mostra del 2012 Artificial Nature (Galleria Artsinergy, Roma). Nel suo lavoro alberga una sorta di quiete onirica, spiega la curatrice Mirella di Peco, prossima a certi echi surrealisti dove lucidità infantile e fantasia visionaria si uniscono per originare un mondo parallelo rassicurante, pur nell’evidente ibridazione delle forme. Una “joie de vivre” in chiave post-human in cui nuovi esseri vagano serenamente, eludendo il senso di disagio trasmesso dalla condizione mutante. La cultura cyberpunk degli anni ottanta, fatta di androidi e replicanti immersi in scenari metropolitani noir, lascia il posto alla bionica e alla cibernetica, ancora più precisamente alla biomimetica, lo studio della natura e delle sue meccaniche per applicazioni artificiali.
Il mondo immaginario di Corradetti richiama, a volte, immagini al microscopio di elementi naturali, svelando un mondo nascosto e pacifico di forme inconsuete, altre, fondali marini popolati da strani esseri invertebrati che assumono le sembianze di un mouse, o spermatozoi simili a lampadine. Tutto immerso nel candore di una realtà positiva. Sono distanti gli anni in cui Jeffrey Deitch con la mostra Post Human (FAE Musée d’Art Contemporain di Pully, Losanna, giugno 1992, poi Castello di Rivoli, Torino in novembre) comunicava al mondo l’avvento di una nuova era, quella appunto della post umanità. Artisti come Matthew Barney, Paul McCarthy o Wim Delvoye mostravano l’uomo attraverso la lente deformata di un processo evolutivo partito dal genio umano, che proprio su quest’ultimo si stava ritorcendo determinando condizioni ibridate poco rassicuranti.
Processi frutto di una costante manipolazione fisica e genetica, emersi da sogno dell’uomo di superare la propria condizione umana. La finitezza dell’essere, la sua dipendenza dal dato terrestre, invecchiamento, malattie e quant’altro sono un ostacolo costante per colui che ambisce allo stato divino. Il post umano è il paradossale bisogno dell’uomo di sentirsi il meno umano possibile, voler modificare la propria condizione ritenuta insufficiente rispetto ad un probabile ideale superiore. In tal senso Orlan trasferisce il proprio “studio” – sia inteso come luogo di lavoro, che obiettivo di ricerca – nella sala operatoria di un chirurgo plastico, sottoponendosi a continui interventi per correggere il proprio aspetto, non al fine di raggiungere un ideale stato di bellezza, ma con il semplice intento di esprimere il senso stesso del processo mutante.
È proprio sulle dinamiche del “mutante” che gli artisti degli anni novanta spostano l’attenzione poiché, esaltati dalle nuove possibilità della tecnologia digitale, il loro immaginario si sposta dall’androide all’essere ibrido. La scienza ha impresso una spinta notevole e mentre Jurassic Park (1992) ipotizza di far rinascere i dinosauri attraverso la clonazione, al Roslin Institute, vicino Edimburgo, alcuni ricercatori imboccano la strada che quattro anni dopo li avrebbe portati alla “produzione” di Dolly, una semplice pecora, non nata, ma generata in laboratorio. Il primo essere vivente clonato, il grado zero di una nuova civiltà. Morta nel 2007 Dolly è visibile oggi al Royal Museum of Scotland, imbalsamata come un trofeo di caccia e fissa nella posa come una divinità classica. Il suo aspetto familiare contrasta con l’eccezionalità dell’evento che ne ha determinato la nascita, e non si prova timore nel guardarla, non vengono in mente le terribili scene di esperimenti (falliti), dove esseri umani subiscono processi di mutazione aberrante; non si pensa al tragico esito del teletrasbordo che ha condannato il prof. Seth Brundle a trasformarsi in una mosca. Dolly è l’emblema rassicurante di un domani inevitabile, costantemente in bilico tra volontà di preservazione e rischio di sperimentazione, dove ineluttabilmente l’etica si scontra con la genetica.
Non si può tuttavia pretendere l’immortalità senza aggirare i limiti imposti dalla natura. Il post-human è un territorio inesplorato, l’alba di una nuova era popolata da esseri ambigui, raccapriccianti e dolci, che convivono delicatamente con l’uomo condividendone spazi e costumi. Dolly era morta da pochi mesi quando alla Biennale di Venezia del 2003 Patricia Piccinini incantava il mondo con We Are Family, delicatissima ricostruzione di un’ipotetica famiglia di esseri mutanti, dove anche gli oggetti d’arredo erano deformati per meglio adattarsi alle necessità della nuova specie.
Le “nature artificiali” di Giulia Corradetti mostrano un’artista totalmente immersa in questa nuova realtà, consapevole delle possibilità offerte dalle tecniche digitali con cui opera. Il futuro è foriero di bellezza, non si può restare indifferenti di fronte alle sue opere e al fascino di una dimensione irreale che costantemente ci riporta al quotidiano. Le metafore si sprecano: in Artificial Love due pesci si accoppiano non più grazie ai consueti organi sessuali, ma ad una presa per la corrente; le Artificial Plant presentano un tasto on/off sul vaso che le contiene, perché per vivere hanno bisogno di essere “accese”. Il post nature di Corradetti è pacifico, delicato e raffinato, carico di sensibilità femminile e grazia estetica. Fiori, verdure, invertebrati si alternano a elementi tecnologici su fondi bianchi, asettici e perfettamente levigati, proprio come gli avveniristici laboratori scientifici, dove nulla è lasciato al caso e tutto è perfettamente sterilizzato. Ma il bianco, infine, è anche simbolo di purezza, luce da cui nasce il nuovo, condizione neonatale, l’alba, dicevamo, di una nuova civiltà in un nuovo millennio.